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Il futuro occupazionale dei giovani istruiti

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Nei Paesi europei dell’area mediterranea è diffusa la difficoltà dei giovani istruiti a trovare occupazioni coerenti con il livello di istruzione conseguito. Si rileva una generale tendenza all’aumento della sovraistruzione (over-education) o anche a un mismatch che riguarda il disallineamento tra le conoscenze acquisite durante il percorso formativo e le conoscenze richieste dal mercato del lavoro.
L’Italia in particolare è caratterizzata da una struttura della domanda di lavoro orientata verso basse qualifiche. L’occupazione nelle professioni intellettuali e tecniche e nei settori a elevata intensità di ricerca e sviluppo si è negli anni della crisi, ancor più, ridotta, con un conseguente spreco di risorse umane altamente qualificate. L’ipotesi principale, che la ricerca prova a verificare empiricamente, è che a un elevato titolo di studio non corrispondano più posizioni professionali e contrattuali qualificate e vantaggiose.

La ricerca sociologica “Dinamiche occupazionali e prospettive di lavoro nella provincia Barletta-Andria-Trani” si colloca all’interno del più complesso e ampio dibattito relativo ai temi della disoccupazione giovanile istruita e delle politiche attive che possono realizzare gli enti politici territoriali.

Una sintesi del contesto

Nei paesi europei dell’area mediterranea è diffusa la difficoltà dei giovani istruiti a trovare occupazioni coerenti con il livello di istruzione conseguito. Le ultime rilevazioni, come quelle effettuate da EULFS (European Union Labour Force Survey) mostrano che il fenomeno si sta estendendo anche ad altri paesi dell’Unione. Si rileva una generale tendenza all’aumento della sovra-istruzione (over-education) o anche a un mismatch che riguarda il disallineamento tra le conoscenze acquisite durante il percorso formativo e le conoscenze richieste dal mercato del lavoro.
Tuttavia, l’Italia è, tra i paesi europei, quello con minore capacità di creare occupazione, il cui tasso è del 55,4 %, mentre quello medio europeo è del 68 %3. La crisi economica non ha ridotto soltanto i nuovi posti di lavoro, li ha resi sempre più instabili. La probabilità di svolgere un lavoro instabile è cresciuta nel 2012 per i giovani (15-24 anni) del 52 % e per i giovani adulti (25–34 anni) del 23 %. E tra i lavoratori dai 15 ai 34 anni, la percentuale di occupati instabili cresce più per i laureati che per i lavoratori con la sola licenza media. Conseguentemente, il rischio
di ritrovarsi ingabbiati in rapporti di lavoro instabili di lungo periodo, in età adulta, è maggiore per i laureati che per i lavoratori meno istruiti.
Non solo: diminuiscono gli occupati nell’istruzione e nei servizi alle imprese (pubblicità, marketing, consulenza tecnica e manageriale, ricerca e sviluppo, gestione risorse umane) e crescono invece i servizi per le famiglie (lavoro domestico) e nell’as- sistenza delle persone anziane. La quota delle professioni intellettuali, inferiore al 10% sul totale degli occupati, è tra le più basse in Europa.
L’Italia reagisce alla crisi di questi anni aumentando non i settori ad alta potenzialità di innovazione scientifica, tecnologica e culturale, ma quelli dove queste potenzialità sono minori (per esempio nel settore istruzione vi è un occupato ogni 41 abitanti contro una me- dia europea di 30, invece un occupato nei servizi alle famiglie ogni 84 abitanti contro una media europea di 159).
In breve: il processo di terziarizzazione è nettamente a favore di settori arretrati che consumano invece di produrre risorse. I cosiddetti ‘lavoratori della conoscenza’, cioè quelli che trattano informazioni, identificati da Cnel e Istat come lavoratori laureati occupati in professioni intellettuali e tecniche, sono inferiori di 5 punti percentuali rispetto alla media europea. Si assiste dunque a una distruzione di occupazione qualificata e a un spreco di risorse umane giovani, scolarizzate e qualificate.
Non è un caso se un numero crescente di giovani evita di segnalare nel proprio curriculum il possesso del titolo di studio più elevato. Eppure, nel nostro paese, la percentuale dei giovani con un diploma è inferiore alla media europea di 15 punti e di circa 10 punti in meno quella dei giovani laureati. Si verifica un apparente paradosso: i giovani istruiti hanno un minor vantaggio rispetto ai non istruiti, nonostante vi siano meno diplomati e laureati. Per contro, i giovani istruiti hanno un maggior vantaggio nei paesi europei in cui è più elevata la loro presenza. Sembrerebbe non funzionare la regola (legge di mercato) per cui, se un bene (l’istruzione) è scarso, ne trae maggiore vantaggio chi lo possiede. Svanisce il paradosso quando si confronta la composizione dell’occupazione per livelli professionali. L’Italia presenta una domanda di lavoro più orientata verso le basse qualifiche e meno verso quelle alte, diversamente da quanto accade nel resto dell’Europa centro-settentrionale. Perciò, i giovani italiani istruiti, benché relativamente pochi, risultano troppi in termini economici, poiché devono confrontarsi con scarse occasioni di lavoro qualificate. E i giovani meridionali laureati restano più disoccupati dei diplomati, anche oltre i 30 anni.
Nel 2011 su 100 laureati da 25 a 39 anni neppure la metà è riuscita a trovare occupazione in una professione intellettuale o dirigenziale (in Germania e Olanda la media è del 60 %). Dunque, l’altro 50 % dei laureati italiani (ancor più per i meridionali) è rimasta in cerca di lavoro o svolge un’attività lavorativa meno qualificata, per la quale i laureati sono considerati sovra-istruiti. In Italia, la fascia di età tra i 25 e 39 anni presenta la minore percentuale di laureati e la più bassa percentuale di occupati in professioni intellettuali e tecniche tra i paesi europei. Per cui, pur auspicando un aumento dei livelli di istruzione delle nuove generazioni, si incorrerebbe in un incremento del livello di sovra-istruzione, se dovesse persistere la qualità dell’attuale domanda di lavoro. Un giovane sovra-istruito invece di essere preferito perché in possesso di più elevate competenze, può essere scartato in quanto ritenuto meno motivato o dotato di qualità personali, tanto da aver accettato una posizione sotto-qualificata. Per un datore di lavoro la sovra istruzione può essere considerata addirittura uno stigma negativo.
le ipotesi della ricerca
Le informazioni di tipo statistico-quantitativo appaio- no necessarie ma insufficienti per cogliere, attraverso un’analisi esclusiva di variabili quali l’età, il genere, il titolo di studio, la posizione professionale, la classe di reddito ecc., profili esaustivi dell’offerta di lavoro. Il funzionamento del mercato del lavoro, nel passaggio da una società salariale ad un contesto caratterizzato da confini sempre più deboli tra settore secondario e terziario, tra lavoro autonomo e subordinato, fino alla tendenziale dissociazione tra lavoro e impiego (in relazione alle modalità contrattuali), richiede un’intensificazione di sforzi conoscitivi. Una scelta metodologica opportuna può essere rappresentata dall’analisi dei percorsi biografici individuali, attraverso la somministrazione di un questionario che colga con maggiore approssimazione l’intreccio complesso tra individua- le e collettivo, tra sociale e soggettivo. Concetti quali disoccupazione, ricerca di lavoro, passaggio scuola/ lavoro, ecc. hanno dimensioni e confini sempre meno definiti. Per cui, talvolta, i soli dati quantitativi posso- no indurre gli stessi policy maker a realizzare interventi poco efficaci.

I ricercatori di Efesto4, dopo aver definito l’oggetto della ricerca, la disoccupazione giovanile (15- 34 anni) scolarizzata in funzione del sistema produttivo della provincia Barletta Andria Trani, hanno circoscritto la popolazione da studiare:

a) i disoccupati giovani (15-24 anni) e giovani adulti (25-34 anni) in possesso di licenza media, diploma e laurea;
b) le imprese, ripartite come nel diagramma della 1. In particolar modo è necessario specificare per ogni impresa campione la sua struttura produttiva:

Figura 1 – I segni + e – indicano una prevedibile capacità di assorbimento dei giovani istruiti

  • tipo di prodotto
  • i processi e le fasi di produzione (o di commercializzazione);
  • l’organigramma;
  • i tipi d’investimento;
  • i livelli di produttività (vendite);
  • il livello tecnologico;
  • il mercato;
  • la posizione nel settore.

Assumendo che il sistema produttivo provinciale è fortemente sbilanciato verso le piccole dimensioni e il lavoro autonomo, sono state definite le ipotesi da sot- toporre a verifica empirica:

  1. Il sistema produttivo provinciale, benché abbia mo- strato negli ultimi decenni una discreta vivacità economica rispetto al contesto regionale pugliese, qualora esprima domanda di lavoro, esclude, tendenzialmente, i lavoratori con titolo di studio elevato che risulterebbero sovra-istruiti rispetto ai ruoli organizzativi disponibili.
    Le imprese preferiscono assumere lavoratori con livelli minimi di scolarizzazione.
  2. Lo stigma negativo attribuito al titolo di studio elevato (laurea), nel caso dei sovra-istruiti, è un fattore che favorisce la decisione di
  3. I giovani (15-24 anni) e i giovani adulti (25-34 anni) diplomati e laureati, dopo un periodo di ricerca e atte- sa, accettano, nel caso si rendano disponibili, posizioni sotto qualificate rispetto al titolo di studio (fenomeno del cooling out).
  4. Le donne, in prevalenza, smettono la ricerca attiva del lavoro, ritirandosi tra gli inattivi (fenomeno del lavoratore scoraggiato).
  5. I giovani e i giovani adulti con licenza media han- no più possibilità rispetto ai loro coetanei, a maggiore scolarizzazione, di trovare occupazione nei settori 3 e 4 indicati nel
  6. Il raffreddamento delle aspettative (cooling out) e i il ritiro dalla ricerca attiva hanno un ‘effetto dimostrazione’ sui giovani ancora inseriti nel sistema formativo tale per cui, pur ritenendo il titolo di studio un emblema apprezzabile socialmente (status symbol), essi allentano l’impegno negli A un minor impegno corrisponde, conseguentemente, un minor livello di acquisizione di competenze e titoli di studio non adeguati agli standard attesi.

Una verifica empirica della teoria del ‘capitale umano’

La scelta metodologica compiuta dai ricercatori, rite- nendo insufficienti le informazioni di tipo statistico- quantitativo, come si è accennato in precedenza, prevede un’analisi dei percorsi biografici individuali di un campione di giovani disoccupati. Attualmente è in svolgimento la somministrazione dei questionari presso i centri per l’impiego provinciali. Sono poi previste interviste a un campione di imprenditori per scandagliare le strategie aziendali e organizzative con la con- seguente scelta di inserimento/esclusione di capitale umano in possesso di doti cognitive pregiate.

Il gap tra le aspirazioni socio-professionali dei giovani con elevati livelli di istruzione e posti di lavoro disponibili sembrerebbe smentire la teoria del capitale umano. Secondo cui: le persone più istruite e qualificate otterrebbero un reddito maggiore delle altre; la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi da lavoro e della ricchezza sarebbe positivamente correlata alla disuguaglianza nell’istruzione o in altri elementi di formazione personale; la disoccupazione risulterebbe fortemente correlata in maniera inversa all’istruzione. Se fossero validate sul campo le ipotesi di ricerca, confortate anche da numerosi dati e dalla osservazione dei comportamenti degli attori principali del mercato del lavoro, segnerebbero una svolta interpretativa originale e innovativa tale da rendere meno attendibile (almeno nel contesto studiato) la teoria economica del capitale umano, oggi dominante.

Enti territoriali e politiche attive per l’occupazione

Le politiche attive del lavoro finora sono state attuate dall’ente territoriale provinciale attraverso i centri per l’impiego che in Italia mediamente si devono occupare di 270 disoccupati, contro i 30 dei centri olandesi o i 60 dei francesi e così via. Non esiste un’agenzia nazionale di coordinamento per l’impiego e soprattutto sono notevoli le differenze territoriali in ordine all’efficienza e all’efficacia delle prestazioni. In Italia appena un terzo dei disoccupati si rivolge ai Centri per l’impiego per trovare lavoro, contro medie che superano il 60% negli altri paesi europei. Anche il ricorso alle agenzie private è tra i più bassi in Europa.

È arduo ritenere che le politiche attive del lavoro possano essere realizzate da un Ente territoriale (Provincia o Regione) in assenza di una programmazione sia nazionale che europea. Tuttavia la dimensione territoriale dell’Ente si configura non solo come locus terminale di politiche del lavoro decise altrove ma, altresì, conferisce ad esso un rilievo da primo attore capace di interpretare le dinamiche presenti nel mercato del lavoro. In grado quindi di proporre ai livelli istituzionali superiori correttivi alla domanda di lavoro (imprese), che oggi non ha, da sola, possibilità di avviare a soluzione il problema della disoccupazione giovanile intellettuale. Uno degli obiettivi della ricerca è quello di fornire indicazioni, all’Ente territoriale, volte a promuovere opportunità attraverso politiche attive del lavoro, ossia a favorire l’occupabilità (non elusivamente da lavoro dipendente) dei giovani istruiti.

Il processo di decentramento amministrativo conferisce significativa rilevanza agli enti politici territoriali, riconoscendone le potenzialità per il raggiungimento di maggiori livelli di efficacia e di efficienza degli inter- venti. Ciò significa porre al centro delle politiche attive interventi in grado di sviluppare una domanda di lavoro qualificata. Il conferimento di responsabilità in materia di governo del mercato del lavoro, in particolare con il passaggio alle Province dei servizi per l’impiego, rende indispensabile, in primo luogo, una conoscenza attendibile delle dinamiche occupazionali del territorio per procedere poi alla realizzazione di interventi che non possono esaurirsi esclusivamente all’interno del mercato del lavoro.

La dimensione locale rappresenta il livello fondamentale per agire adeguatamente nei seguenti ambiti di intervento:

  • strumenti di politiche attive;
  • politiche del lavoro e per lo sviluppo locale;
  • ruolo della formazione all’interno delle politiche del

Infine, l’indagine si caratterizza per il coinvolgimento attivo del committente sia nella definizione del piano di ricerca, sia nell’assunzione di responsabilità nell’individuare gli strumenti più efficaci, a disposizione dell’Ente per realizzare interventi attivi di politica del lavoro.

Bibliografia

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Comunicato e sintesi del Rapporto Euro*IDEES, “L’occupazione nelle regioni e province italiane tra il 2000 e il 2014: si allarga il divario Nord-Sud”, Bruxelles- 19 maggio 2015.

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Emiliano Mandrone, Debora Radicchia, La ricerca di lavoro: i canali di intermediazione e i Centri per l’impiego, collana Studi Isfol | numero 2011/2 – dicembre. Serafino Negrelli, Le trasformazioni del lavoro, Laterza Emilio Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino.

Emilio Reyneri, Federica Pintaldi, Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, Il Mulino.

Tiziano Treu, Rapporto CNEL sul mercato del lavoro, Roma, 30 settembre 2014.

Pubblicato sulla rivista Persone e Conoscenze n. 105

Sergio D’Angelo

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